Sguardi al futuro

Intervista a Massimo Sideri, giornalista e Vicecaposervizio Corriere della Sera

Mettersi in gioco, condividere le idee: perché l’intelligenza collettiva batterà sempre l’intelligenza individuale.

Perché sono salito quassù? Chi indovina? Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva.
[da “L’attimo fuggente” di Peter Weir]

COS’È PER MASSIMO SIDERI L’INNOVAZIONE E CHE RUOLO RICOPRE NELLA VITA DELLE IMPRESE E DI TUTTI NOI?
Quando ho iniziato a lavorare al Corriere nel 2000, l’Italia viveva la stagione dei grandi crac finanziari, così ho seguito le vicende di Parmalat, dei Tango bond e della Cirio. Con gli anni, un po’ per interesse personale un po’ perché il giornale aveva un vuoto tematico da colmare, mi sono appassionato alla tecnologia e all’innovazione e, insieme al mio collega Giancarlo Radice, ora in pensione, ho iniziato a seguire – in tempi ancora non sospetti – quel fenomeno rivoluzionario che è stato ed è internet. La preparazione economica è rimasta la chiave di lettura: credo che non guardare a internet e in generale all’innovazione semplicemente come a un fenomeno circense, ma tentare di capire come sta modificando i modelli di business, i rapporti tra imprenditori e dipendenti, gli impieghi professionali, sia la prospettiva migliore per capire dove va il mondo. Spesso mi sono chiesto quale sia l’esatta definizione di innovazione. Da dizionario, leggiamo che è l’atto di innovare, ma si tratta di una di quelle definizioni tautologiche che lasciano l’amaro in bocca perché non spiegano bene di cosa si tratti. Secondo me la migliore definizione è stata data da Nicholas Negroponte, padre del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che una volta ha detto:
“L’INNOVAZIONE È QUELLA COSA CHE NESSUNO STATO VUOLE DAI PROPRI CITTADINI, NESSUNA FAMIGLIA VUOLE DAI PROPRI FIGLI E NES-SUNA AZIENDA VUOLE DAI PROPRI DIPENDENTI”, definendola così come un processo creativo, ma quasi innaturale che ci costringe a cambiare punto di vista. Un po’ come nel film L’attimo Fuggente in cui il protagonista fa salire i ragazzi sui banchi per esortarli a guardare il mondo da nuove angolazioni, a cambiare punto di vista. L’innovazione è spesso così: in continuo divenire, ci costringe a metterci in gioco, a continuare a imparare e a studiare ed è questo il bello.

NOI SIAMO ABITUATI A VEDERE LE COSE IN UNA CERTA MANIERA, L’INNOVAZIONE ESIGE UN CONTINUO CAMBIO DI PROSPETTIVA, PER ESSERE SEMPRE AL PASSO CON I TEMPI.
In questi anni, l’approccio all’innovazione è molto cambiato, lo noto parlando con le aziende, con gli amministratori delegati: c’è finalmente una grossa curiosità, anche se non ancora una reale comprensione di come il mondo stia cambiando. L’atteggiamento delle aziende è simile a quello degli esseri umani: c’è questo travolgente fenomeno che si chiama innovazione, una rivoluzione che cambia tutto, allora mi spavento e tento di tenerla lontana. Sicuramente, le aziende italiane in particolare, per tanti anni si sono comportate in questa maniera, hanno tentato di tenere l’innovazione fuori dalla porta come se fosse un nemico. Un po’ è quello che accade nella vita personale, quando si hanno delle certezze e qualcuno ci dice che dobbiamo cambiarle: con gli anni, diventa sempre più difficile. Non è mai tardi però, perché una delle leggi non scritte dell’innovazione è che se tu non fai qualcosa, la farà sicuramente qualcun altro. In ogni caso, il mondo in cui viviamo è destinato per molti versi a scomparire, non è detto che sia un bene, ma è un processo che dobbiamo accettare.
Per molte aziende, innovazione vuol dire taglio dei costi. Credo sia un grosso limite.

L’INNOVAZIONE NON È UN TAGLIO DEI COSTI E RICHIEDE, AL CONTRARIO, GROSSI INVESTIMENTI. L’innovazione è qualcosa di trasversale che modifica il nostro modo di essere. Prendiamo a esempio, Blade Runner: si tratta dell’ultimo grande film girato col metodo analogico, da allora in poi, tutti i grandi film hanno raggiunto il successo grazie alla digitalizzazione. O prendiamo il mondo dell’editoria: prima il giornalista lavorava con la macchina da scrivere, poi ha iniziato a scrivere sul pc, ora può entrare direttamente nel sistema editoriale e aggiornare il sito del Corriere.it in diretta dal cellulare. Questo tipo di innovazione, così come il passaggio dall’analogico al digitale, sono innovazioni del metodo di lavoro. Le abbiamo generalmente accettate perché non mettevano in gioco il ruolo delle professioni tradizionali ma richiedevano solo un aggiornamento dei processi. Attualmente siamo in fase più complessa in cui il lavoro può essere disintermediato dalle macchine: ciò può creare l’illusione che si possa fare a meno degli uomini, ma in realtà ci sono cose che le macchine non potranno mai comprendere, come il concetto di morte, tanto che uno dei temi più dibattuti è quello dell’eredità/testamento digitale. I potenti server di Google come quelli di Facebook con tutta la loro intelligenza non riescono a capire che non possono continuare a proporci di seguire delle persone scomparse. Ecco, per esempio, perché l’innovazione può essere uno strumento per migliorare la vita delle persone, non per disintermediarle. Ad oggi, ciò che sta disintermediando piuttosto è il nostro tempo libero: l’ubiquità della tecnologia fa sì che ci sia sempre meno separazione tra vita familiare e vita professionale.

STARE IN ASCOLTO, CONFRONTARSI, CONDIVIDERE SONO LE PAROLE D’ORDINE PER GLI IMPRENDITORI.
La cosa che più mi stupisce dell’ecosistema degli startupper è proprio questa: la condivisione continua delle idee, talmente diversa da tutto quello che ci è stato insegnato sinora (ovvero quando hai un’idea tienila stretta, potrebbero rubartela). C’è quel passaggio molto interessante nel film su Zuckerberg, The Social Network, in cui i due gemelli Cameron e Tyler Winklevoss lo accusano di aver copiato l’idea e lui, stufo, risponde “Io non l’ho copiato perché voi non sareste stati mai capaci di farlo come l’ho fatto io”, che è un po’ quello che tutti sanno nel mondo dell’innovazione: l’esecuzione è la vera arma di uno startupper. Bisogna mettersi in gioco intellettualmente e non avere paura di condividere. Credo che un amministratore delegato debba fare soprattutto questo: mettersi in gioco ascoltando, condividere le idee, perché l’intelligenza collettiva batterà sempre l’intelligenza individuale (a meno di non essere Newton o Einstein), passare più tempo possibile con queste persone, anche senza che vi sia un legame con il proprio business, perché parlare con loro può aprire la mente a nuovi orizzonti.

I NUOVI IMPRENDITORI SI CARATTERIZZANO INFATTI PER UNA GRANDE VITALITÀ, QUELLO CHE INVECE GLI MANCA È FARE SISTEMA.
Nel resto del mondo, invece, i modelli vincenti sono sistemi molto integrati con un dialogo serrato tra mondo accademico, aziendale e startup. L’innovazione infatti, per definizione, tende a fuggire a lacci e lacciuoli, quindi è tendenzialmente esterna alle realtà complesse. Le grandi aziende dovrebbero comprendere che le start up altro non sono che dei centri di ricerca e sviluppo esternalizzati che potrebbero innovare il business che all’interno l’azienda non si riesce a innovare. Un esempio è quello farmaceutico: gli antibiotici che utilizziamo stanno raggiungendo il livello di saturazione e tra venti o trent’anni non avranno più la stessa efficacia. Ed ecco che una piccola start up è riuscita a sintetizzare il super antibiotico e ora è in trattativa per essere acquisita da una multinazionale. Quello che accade nel settore farmaceutico dovrebbe essere replicato anche negli altri settori.

UN ELEMENTO IMPORTANTE CHE MANCA NELLE NOSTRE AZIENDE È IL PENSIERO CHE L’ULTIMO DELLA SCALA GERARCHICA IN REALTÀ POSSA AVERE UN’IDEA GENIALE.
Una delle più grandi lezioni sull’innovazione l’ho ricevuta da Vito Lomele, il fondatore di Jobrapido, uno dei nostri campioni che è riuscito a vendere per svariate decine di milioni la sua creatura nata in una camera da letto, con un computer e senza investimenti, se non quattro soldi dati dagli amici. Lomele è riuscito a creare una sorta di Google, di motore di ricerca del lavoro, ed è riuscito a venderla al gruppo inglese Dmgt, che fa capo al quotidiano inglese Daily Mail. Io sono andato a intervistarlo proprio quel giorno. Era nella sede di Jobrapido, vicino al Castello Sforzesco, con i suoi 100 ragazzi provenienti da tutti i Paesi del mondo. Bisognava fare una foto e il fotografo chiedeva che tutti i ragazzi si raccogliessero intorno a Vito, ma nessuno lo ascoltava. Disperato ha chiesto aiuto a Vito, il grande capo, che ha provato a chiamarli, ma nessuno ha ascoltato nemmeno lui, sicché mi ha detto “Vedi Massimo, l’innovazione è troppo veloce per essere gerarchizzata. Non posso pensare di essere il capo qui dentro, perché magari uno dei ragazzi sta per avere un’idea che sarà molto più importante della mia”.

INFINE, IL GRANDE ASSENTE È LO STATO, NON SOLO SUL FRONTE DIGITALE, MA SU TUTTA LA POLITICA INDUSTRIALE.
È vero che negli ultimi anni sono state emanate norme che hanno facilitato la nascita di nuove imprese innovative, ma viaggiando e conoscendo i protagonisti della Silicon Valley californiana o di quella israeliana, cinese, tedesca o della Tech City londinese, l’elemento che emerge è che lo Stato, il soggetto pubblico, a un certo punto ci ha creduto. E pensare che in passato abbiamo investito in aziende – anche private – per sostenerle nei momenti di difficoltà, vedi Alitalia negli ultimi anni. Il problema è che non adottiamo la stessa sensibilità in ambito innovazione. Laddove invece in California o Israele, nessuno si stupisce che lo Stato versi mezzo miliardo di dollari l’anno per supportare questo settore. È come se ci ostinassimo a difendere i vecchi posti di lavoro senza avere la lungimiranza di crearne di nuovi. Difatti le finalità sociali sono banalissime da descrivere: abbiamo tutto un mondo di mestieri e lavori tradizionali che si sta deteriorando, questo è un modo per creare nuova occupazione.

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